fotografo Massimo Vicinanza

La fotografia di Massimo Vicinanza: passione e crescita

D. Quando e come ha scoperto la fotografia?

R. Una volta andai con mio fratello e un suo amico al Parco Nazionale d’Abruzzo per trascorrere una settimana nel rifugio della Camosciara. Sergio, l’amico, aveva una Minolta SRT100 e alcuni obiettivi, dal macro al tele. Ricordo le sue bellissime foto fatte a camosci, aquile, ruscelli e “Scarpette di Venere”, un raro tipo di orchidea spontanea che cresce in quelle zone, tutte in bianco e nero e naturalmente stampate a casa. Era il 1975, io avevo 15 anni e loro 17.

D. Ci racconti il suo primo approccio a quest’arte?

R. La mia memoria va di nuovo agli anni ’70, quando nei giornali si vedevano foto belle e soprattutto sempre diverse fra loro, spesso esclusive e che da sole raccontavano sia i grandi fatti che la quotidianità. Ero incuriosito soprattutto dalle fotografie che riuscivano a concentrare l’essenza della notizia. E poi allora c’erano ancora i “paparazzi”, quelli veri, che con i loro scoop riuscivano a far moltiplicare le vendite di una rivista e anche questo mi affascinava. Ecco, più che di approccio all’arte fotografica potrei dire che si è trattato di un lento e costante interessamento alla fotografia, legata al mondo editoriale.

D. Ricorda la sua prima foto?

R. Sì, fu quella di un piccolissimo cactus a forma di palla e pieno di spine. Lo fotografai con una Kodak Instamatic e ricordo che a momenti morivo dissanguato per metterlo “in posa”.

D. Quale è stato il suo percorso di crescita e apprendimento dell’arte fotografica?

R. Ho imparato da solo e ancora oggi continuo a studiare e sperimentare.

D. E quali le sue tappe più significative?

R. Prima di diventare fotografo professionista, ero ufficiale a bordo di navi mercantili e per molti anni sono stato in giro per il mondo. Poi decisi di cambiare lavoro. Non avevo mai smesso di fotografare e pensai che quel mestiere era il più adatto per me. Ma non ero in grado di valutare la qualità dei miei scatti e l’opinione di amici e parenti poteva essere troppo indulgente. Serviva un parere autorevole e super partes. Quindi mi rivolsi a Charles-Henry Favrod, un critico della fotografia, che all’epoca dirigeva il Musée de l’Elysée di Losanna. Lo incontrai, fu molto gentile, vide alcuni miei lavori e mi incoraggiò a continuare. Perciò decisi di compiere il grande passo e lasciai definitivamente le navi.

D. Cosa rappresenta per lei la fotografia in termini emotivi?

R. Sono sempre stato un grande viaggiatore e penso che la fotografia debba servire a far viaggiare sia la mente che l’anima.

D. E pratici?

R. Beh, è certamente una buona scusa per continuare a viaggiare.

D. Fotografa per lavoro o per diletto?

R. Per entrambi. Lavoro e lo faccio divertendomi.

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Maestri e grandi fotografi di Massimo Vicinanza

D. C’è stato un incontro con qualcuno che si rivelato importante per la sua crescita?

R. Sarò banale, ma credo che tutte le persone che si incontrano siano importanti, nel bene e nel male. I colleghi, ognuno con la sua specializzazione, i clienti, ognuno con le sue esigenze, la gente in genere, con la sua diversità.

D. Ha avuto un vero e proprio “maestro”?

R. Sì, un grande fotoreporter da poco scomparso, Settimio Garritano. Da lui ho imparato molto, non tanto nella tecnica, quanto nel modo di vivere la fotografia e soprattutto la vita.

D. Per lo stile, ha fatto riferimento a quale grande fotografo mondiale?

R. Francamente a nessuno. Mi piacciono moltissimi fotografi, ma credo che lo stile sia qualcosa di davvero personale e riferirsi a qualcuno, soprattutto ai grandi, spesso si traduce in una ridicola emulazione. Anche se il proprio stile può essere simile a quello di altri, credo che per far bene, ognuno debba riferirsi a se stesso.

D. Chi sono i “grandi” di ogni epoca che ammira di più?

R. I soliti, quelli che tutti da sempre ammiriamo: Capa, Cartier-Bresson, Penn, Haas…

D. Il preferito in assoluto?

R. Probabilmente Robert Mapplethorp.

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Gli scatti di Massimo Vicinanza

D. Cosa le piace fotografare?

R. Tutto, tranne la cronaca nera.

D. Qual è il suo soggetto preferito?

R. Le dico le belle donne, naturalmente. Ma in realtà, a parte mia moglie, mi sono dedicato poco a questo tema. L’architettura e il viaggio sono i soggetti che mi appassionano di più e la mia innata curiosità mi fa spaziare un po’ ovunque.

D. E il genere?

R. Sono specializzato nella realizzazione di grandi reportage, servizi fotografici pubblicati su 6 – 8 o più pagine, per i quali scrivo anche un testo. Infatti, per essere più competitivo, spesso abbino alle mie fotografie anche un articolo. Di solito scelgo un argomento che mi affascina, lo realizzo e poi lo propongo ai giornali, quasi esclusivamente esteri. In genere funziona.

D. Ci racconti il suo concetto di inquadratura.

R. L’inquadratura racconta la storia e la storia è come un romanzo, deve avere un inizio, un “durante” e una fine. Prediligo un’ottica grandangolare perché fa vivere la scena dal di dentro, da protagonista e anche perché contestualizza ciò che si sta raccontando. E poi il medio tele per focalizzare l’attenzione sui dettagli e il tele per rendere meglio alcune prospettive. Non amo molto i teleobiettivi spinti e il 200 mm lo uso molto di rado.

D. Che tipo di luci preferisce?

R. Quella che c’è, perché è l’unica che rende l’atmosfera della scena, quindi non uso quasi mai il flash, se non per pura documentazione. Anche nello still life o per la foto in studio, preferisco la luce continua, la trovo più morbida e meno fredda.

D. Quale nuovo genere di fotografia vorrebbe esplorare?

R. Mi piacerebbe fare microfotografia, ma non ho né l’attrezzatura né la committenza.

D. Usa tecniche fotografiche speciali, come il macro?

R. Insegno Foto digitale nel corso di Nuove Tecnologie dell’Arte all’Accademia di Belle Arti di Napoli e ogni anno, con gli allievi, sperimentiamo cose nuove: foto in 3D, morphing, step motion, ologrammi… Ecco perché la ricerca e lo studio non si fermano mai.

D. Usa il bianco/nero con il digitale?

R. No, non lo faccio mai perché ho la sensazione di partire avvantaggiato. Sono convinto che chi guarda una foto in bianco e nero, già in partenza è ben predisposto, mentre se guarda una foto a colori il suo giudizio sarà più severo. Penso che la grande sfida sia proprio quella di rendere appassionante una fotografia a colori. E poi la vita stessa è a colori. Ma sia chiaro, il bianco e nero mi piace moltissimo, sono io che non lo faccio.

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Massimo Vicinanza e il fotoritocco

D. La sua opinione sul fotoritocco:

R. È sempre esistito, è cambiato solo il mezzo con cui si fa. Prima era manuale, si scaldavano le parti da annerire col dito direttamente nella bacinella dello sviluppo della carta, si mascheravano quelle da schiarire con dei cartoncini o muovendo la mano sotto l’ingranditore, si correggevano le linee cadenti inclinando il foglio, si facevano le solarizzazioni, i sandwich, si stampava su pellicola lith, eccetera. E il ritocco vero e proprio si chiamava spuntinatura, si faceva a china o con i colori ad acqua Peerless. Bisognava avere mano ferma ed essere armati di una pazienza infinita, perché non esisteva la “storia”, che poteva riportare indietro quando un lavoro era fatto male. Oggi è tutto digitale, ma la sostanza non cambia. Però non bisogna commettere l’errore di pensare che sia più facile: come allora, anche oggi ci si accorge immediatamente di un fotoritocco eseguito in modo grossolano.

D. Quali sono, secondo lei, i limiti etici al fotoritocco?

R. Dipende dall’utilizzo che si farà dell’immagine. Il limite è nell’etica stessa. In pubblicità, ad esempio, falsare una fotografia per enfatizzare eccessivamente un prodotto o addirittura per trasmettere un messaggio promozionale non veritiero, è un comportamento da censurare. Un ritratto invece può essere migliorato e anche notevolmente, a tutto vantaggio della soddisfazione del cliente. C’è però da ricordare che il bravo fotografo “alleggerisce” i difetti di un volto già in fase di ripresa, con la giusta inquadratura e un sapiente uso delle luci. A tutto vantaggio del suo tempo, che non sarà sprecato davanti a un monitor. Nella foto d’arte, infine, penso che si possa fare tutto, ma in questo caso parliamo di manipolazione digitale e non di fotoritocco.

D. E’ lecito intervenire per migliorare luci e toni di una foto?

R. Sì, fa parte della tecnica fotografica moderna, anche se è discutibile dover ricorrere alla postproduzione per risolvere errori che non dovrebbero commettersi, se non in situazioni estreme.

D. E per rimuovere elementi di disturbo?

R. Anche in questo caso lo trovo assolutamente lecito. Ma anche qui sono un rompiscatole: ritengo che la presenza di elementi di disturbo in una scena, sia un importante stimolo alla ricerca di punti di vista alternativi, a inquadrature diverse dal solito, che potrebbero anche rivelarsi innovative.

D. Che software usa per il fotoritocco?

R. Naturalmente Photoshop.

D. Che tipo di interventi fa di solito?

R. Quelli necessari per migliorare un file digitale, che ha delle criticità intrinseche e anche quelli che, secondo i miei gusti, servono a migliorare l’immagine stessa.

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Massimo Vicinanza: RAW, JPG e TIF

D. In che formato scatta di solito?

R. Jpg per le foto di uso comune e RAW per lavoro e archiviazione.

D. Se scatta in RAW, che software usa per aprirle i file?

R. CameraRaw.

D. Ha mai provato con LightRoom? Se sì, cosa ne pensa?

R. Sì, l’ho usato ma non l’ho trovato particolarmente entusiasmante. Comunque ha un’interfaccia moderna e accattivante ed è molto utile per la creazione di presentazioni o gallerie web.

Informazione

D. Legge riviste di fotografia? Se sì, quali?

R. Quando ero ragazzo, leggevo Progresso Fotografico, Zoom e Photo, ma oggi Internet mi permette di consultare tutto online e soprattutto di avere accesso a cose provenienti da ogni angolo del mondo.

D. Consulta siti web di fotografia?

R. Lavoro molto con la rete e scelgo cosa visitare in base agli interessi specifici del momento. Ma più che i portali dedicati alla fotografia, guardo molti i siti personali, soprattutto per tenermi aggiornato sulle nuove tendenze e per capire la qualità dei fotografi che ci sono in giro. La mia ricerca è sempre su scala internazionale perché, come si dice, la sfida oggi è globale e per riuscire nel proprio lavoro è indispensabile sapere cosa fanno i nostri concorrenti mondiali e come si muovono.

D. Ne consulta alcuni in maniera abituale, considerandoli un punto di riferimento?

R. No, nessuno in maniera abituale, ma un mio sito di riferimento è quello di TAU Visual, l’associazione nazionale fotografi professionisti, a cui sono associato da moltissimi anni.

D. Partecipa a workshop o seminari?

R. A volte sì, dipende dal costo e dall’argomento trattato.

D. Cosa pensa dei workshop?

R. Ho seguito alcuni seminari su Photoshop, ma non ne ho un buon ricordo, forse ho partecipato ai corsi sbagliati. Però sono convinto che se sono ben strutturati possono essere molto utili. E poi anch’io tengo corsi e seminari e quindi non potrei pensarne che bene.

D. Fa parte di un circolo fotografico?

R. No.

D. E di una associazione del settore?

R. Sì, Tau Visual e sono anche iscritto all’Ordine dei Giornalisti.

D. Va a fiere e saloni di fotografia? Se sì, a quali?

R. Quando posso vado al Photoshow.

D. Cosa ne pensa, li trova utili?

R. Sì, sono molto utili per farci… sbavare! E poi, vedere fisicamente quello che c’è di nuovo, è sempre meglio che guardarlo online o in una rivista.

Mostre

D. Visita mostre di fotografia?

R. Quelle importanti sì, cerco di non perdermele.

D. Quali sono quelle che ha apprezzato di più in assoluto?

R. È difficile dirlo. Forse Andreas Gursky nella galleria di Lia Rumma a Napoli e Ramòn Masats nella galleria Blanca Berlin a Madrid.

D. Qual è stata l’ultima visitata?

R. “L’Italia e gli italiani” organizzata dalla Magnum.

D. La mostra che vorrebbe vedere?

R. Quella di un fotografo canadese, Nicolas Ruel, che ho conosciuto e accompagnato durante la realizzazione di un suo lavoro.

D. Ha realizzato sue mostre fotografiche? Se sì, dove e quando?

R. Ne ho fatte alcune, in Italia e all’estero. La prima nel 1994 e l’ultima la sto organizzando per quest’estate.

D. Ci racconti la più emozionante tra queste esperienze.

R. Senza dubbio la mostra sull’architettura Rom in Romania. È stato un lavoro documentario non facile, realizzato in tempi rapidissimi, ma che mi ha fatto scoprire un mondo straordinario e sconosciuto. Ho esposto le foto sia all’Istituto Italiano di Cultura di Madrid che a Palazzo Reale a Napoli.

Attrezzature di Massimo Vicinanza

D. Attualmente, quali fotocamere usa?

R. Non ho un’attrezzatura stratosferica: una Nikon D300 e una Lumix LX2 tascabile, oltre alle analogiche e a una D90.

D. E quali obiettivi?

R. A volte uso ancora i miei vecchi AI f:1,4. Ho anche un 18 – 105 e un 80 – 300, ma mi muovo sempre con un Nikkor 18-200.

D. L’obiettivo che usa più spesso?

R. Il 18-200.

D. Quali flash?

R. Ho tre vecchi Metz che risalgono alla notte dei tempi e che non uso mai, forse sono anche rotti.

D. Quali cavalletti e teste?

R. Un Manfrotto Triaut 058 con testa a tre movimenti e anche un Reporter con testa fluida. Ma anche questi non li uso quasi mai, perché riesco a trovare sempre un appoggio, sempre se non ho con me il sacchetto pieno di ceci. E poi, fortunatamente riesco ancora a scattare a mano libera con tempi abbastanza lunghi.

D. Quali altri attrezzature o accessori usa?

R. Di recente ho acquistato un Lightscoop per ammorbidire la luce del flash della macchina
fotografica: l’ho usato al massimo tre volte! Poi ho un illuminatore a led ed anche questo è praticamente inutilizzato, un vecchio esposimetro Gossen Lunasix, che invece porta i segni della battaglia e vari altri oggetti simpatici. E per alcuni lavori collego la Nikon al portatile e con Camera Control gestisco gli scatti.

D. Utilizza filtri? Se sì, quali?

R. Sì, l’UV!

D. Quale è stata la sua prima macchina?

R. Una bellissima Olympus OM1 e tanti obiettivi Zuiko, comprati con i primi soldi guadagnati durante il servizio militare in Marina. Mi feci rubare tutto a Barcellona. Ero in viaggio, andai a Andorra a comprare un’altra Olympus, ma al tatto non era la stessa e la vendetti quasi subito. Poi negli Stati Uniti comprai una Nikon e da allora non ho mai più cambiato.

D. Come si è evoluta nel tempo la sua attrezzatura?

R. Potrei dire che è stata una parabola: oltre al 35mm, ho avuto il medio formato, una Mamyia RZ67 e un banco ottico Sinar F1. Ai primi segni di calo della vista, acquistai una Contax G1 a telemetro elettronico, ma non ne fui particolarmente contento. Dopo una tenace resistenza, alla fine del 2005 presi la mia prima digitale, una bellissima Lumix LX1, con la quale ho fatto anche un libro fotografico sulle fonti rinnovabili e infine la Nikon D300. Oggi non tornerei all’analogico nemmeno se mi pagassero, non tanto per la qualità, perché la resa della pellicola è sempre straordinaria, quanto per la praticità e i costi di gestione.

D. Dove acquista di solito le attrezzature? Fa spese online?

R. All’estero, perché costano meno.

Massimo Vicinanza e la nostalgia della pellicola

D. Lavora ancora in pellicola?

R. No, ne ho qualcuna, ma è scaduta da un bel po’. Un giorno le userò e se viene fuori qualcosa di interessante, proverò a farci una mostra.

D. Con quali corpi macchina?

R. Ho una Nikon FM1 e una Nikon F3.

D. Quali pellicole usa?

R. Usavo la Velvia per i reportage e la Reala per i ritratti.

D. Se usa diapositive, dove le sviluppa?

R. Le sviluppavo a Roma al laboratorio Cavalieri, a Milano da Reprochrome e a Napoli da Copyright. Cavalieri e Copyright non esistono più, Reprochrome non lo so.

PRO – Massimo Vicinanza in studio

D. Come è fatto il suo studio fotografico?

R. Non ce l’ho. Lo avevo all’inizio. Oggi non ne ho più bisogno, realizzo reportage in giro e la moderna tecnologia mi permette di lavorare da casa. Inoltre, con l’attuale crisi, i costi di uno studio sarebbero insostenibili.

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